Ti è mai capitato di chiudere il computer a fine giornata e, poco dopo, pensare ancora alle mail non inviate o alle riunioni del giorno dopo? Se sì, potresti aver sperimentato quella che gli psicologi chiamano sindrome da corridoio.

Il termine descrive una situazione sempre più diffusa: la difficoltà a separare davvero il lavoro dalla vita privata. È come se esistesse un corridoio invisibile che collega l’ufficio e la casa, in cui la mente continua a muoversi anche quando il corpo si ferma.

Secondo una recente indagine del Censis sul benessere lavorativo, circa un terzo dei dipendenti italiani fatica a “staccare” mentalmente dopo l’orario di lavoro. Non è ancora una patologia riconosciuta, ma un fenomeno che, se trascurato, può portare a stress cronico o esaurimento psicologico.

Come si manifesta la sindrome da corridoio

L’aspetto più evidente della sindrome da corridoio è l’impossibilità di disconnettersi. Ti ritrovi a controllare il telefono anche durante la cena, a rispondere a un messaggio di lavoro mentre sei con gli amici o a pensare a una scadenza mentre provi a dormire.
Nel tempo, questa sovrapposizione tra vita privata e professionale può creare affaticamento mentale, irritabilità, difficoltà di concentrazione e disturbi del sonno.

Non è solo una questione di abitudine, ma anche di contesto. Il lavoro da remoto e la reperibilità continua hanno reso i confini più sfumati. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto che la costante esposizione a stimoli lavorativi aumenta i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, riducendo la capacità del cervello di “disattivarsi” in modo naturale.

Le cause principali

Le cause della sindrome da corridoio sono spesso un insieme di fattori. C’è la pressione aziendale — implicita o esplicita — a essere sempre disponibili. C’è la cultura del multitasking, che porta a credere che si debba essere produttivi anche nei momenti di pausa.
Ma c’è anche un aspetto personale: la difficoltà a mettere limiti, la paura di deludere o di sembrare poco professionali. Questo tipo di atteggiamento rientra nei comportamenti “a rischio di burnout”, ossia quelli che erodono progressivamente l’equilibrio psicofisico.

Un esempio di sindrome da corridoio

Immagina Marco, 35 anni, impiegato nel settore informatico. Lavora da casa tre giorni alla settimana. Dopo cena, apre di nuovo il portatile per controllare che tutto sia a posto. Lo fa “solo per pochi minuti”, ma finisce per restare connesso un’ora. Poi, a letto, la mente continua a girare. Il mattino dopo si sveglia già stanco, come se non avesse dormito.
È una situazione comune: il lavoro resta nella testa anche quando il corpo è altrove. Il corridoio, in questo caso, non è fisico ma mentale.

Gli effetti sul benessere

Nel breve periodo, la sindrome da corridoio può sembrare innocua. A lungo andare, però, può compromettere il benessere generale. Il sonno peggiora, l’attenzione cala, la motivazione diminuisce.
Molti esperti parlano di stanchezza cognitiva, una condizione in cui la mente resta in uno stato di allerta costante. È lo stesso meccanismo che, secondo studi pubblicati su PubMed, favorisce la comparsa di ansia e disturbi dell’umore.

Come gestirla nella pratica

Non esistono ricette miracolose, ma alcune strategie possono aiutare.
Il primo passo è riconoscere il problema. Capire che la mente ha bisogno di tempo per “staccare” è già un modo per iniziare a riequilibrare i ritmi.
Puoi stabilire un orario di fine lavoro reale, non simbolico, e creare un piccolo rituale di chiusura: spegnere il computer, uscire a fare una passeggiata, preparare la cena, ascoltare musica.
Anche la gestione dei dispositivi è cruciale: se controlli le mail aziendali dal telefono, imposta notifiche silenziate dopo una certa ora.
Infine, prova a dedicare momenti specifici ad attività non produttive — leggere, cucinare, camminare — che riportino la mente a una dimensione personale.

Quando chiedere supporto

Se la difficoltà a disconnetterti diventa costante e inizi a sentirti esausto anche dopo giorni di riposo, può essere utile confrontarti con uno psicologo o psicoterapeuta. Non serve attendere che la situazione diventi insostenibile: spesso, un percorso breve di consapevolezza e gestione dello stress è sufficiente per ritrovare equilibrio.

Anche alcune aziende stanno introducendo programmi di welfare psicologico o corsi di “digital detox”, per favorire una cultura del lavoro più sostenibile. In molti casi, parlarne apertamente con il proprio responsabile può essere un primo passo concreto per ridurre la pressione.

 

La sindrome da corridoio non è il segno di debolezza, ma il riflesso di un cambiamento sociale che ha reso il confine tra lavoro e vita personale sempre più sottile.
Riconoscerla significa prendere atto che la produttività non può prescindere dal benessere.
Imparare a chiudere quel corridoio — almeno per qualche ora al giorno — non è solo una scelta di salute mentale, ma un modo per ritrovare concentrazione, energia e tempo per ciò che conta davvero.